Alcune note a margine dell’intervento di Cosimo Massaro al Seminario Eumeswil 28 maggio 2021

di Armando Ermini

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Il  denso intervento di Cosimo (ed in attesa di leggere il suo libro) merita alcune osservazioni, o meglio suscita interrogativi di grande importanza e significato, ai quali non è facile dare risposte che non siano esse stesse problematiche, almeno per quanto mi riguarda. Provo a raggrupparle. 

LA LOTTA CONTRO LE TENEBRE, ovvero l’innegabile decadenza, spirituale e antropologica prima ancora che materiale ed economica, che stiamo vivendo in questo tempo. Innegabile necessità, certamente, ma il problema è il come. Si potrebbero forse prevedere tre opzioni, ognuna delle quali con pro e contro.

A) Contrastare con ogni mezzo, ovviamente sul piano culturale, la deriva, ossia fungere da Katechon, con l’indubbio merito di dare un senso a quello che facciamo, forza nelle proprie convinzioni e la possibilità/necessità di indicare ai più giovani una strada diversa, o almeno lasciare testimonianza a futura memoria di persone che non si sono rassegnate. Tuttavia, alla luce di quanto San Paolo scrisse sulla Parusia, la nuova venuta del Cristo nel mondo, nella lettera ai Tessalonicesi 2:3-4:

<< Infatti, prima dovrà venire l’apostasia (discessio) e l’apocalisse dell’uomo dell’anomia (homo iniquitatis) il figlio della apoleia (filius perditionis), (2,4) L’avversario (qui adversatur, ho antikeimenios), colui che si innalza sopra ogni essere che viene detto Dio e come Dio è venerato, fino a insediarsi nel tempio di Dio (in templo, eis ton naon) e a mostrare se stesso come Dio.[…] Già, infatti,  il mistero dell’iniquità è in atto; ma chi trattiene (ho katechon) trattenga, precisamente fino a quando non venga tolto di mezzo (2, 8). Allora sarà l’apocalisse dell’ Anomos (Iniquus),  che il Signore distruggerà con il soffio della sua bocca, annienterà all’apparire della sua parusia – dell’Anomos, (2, 9) la cui parusia avviene secondo la potenza di Satana, in tutta la sua forza, con ogni segno (2, 10) e menzognero prodigio, con ogni sorta di iniqui inganni per coloro che vanno alla rovina, per coloro  che non hanno accolto l’amore della verità per la propria salvezza (2, 11). E per questo Dio invierà loro la potenza dell’inganno, affinchè credano alla menzogna, (2, 12) e siano così giudicati tutti quelli che non ebbero fede nella verità, ma acconsentirono all’iniquità (adikia) >>

Non è forse vero che il Katechon finirebbe inevitabilmente per allontanare nel tempo la Parusia stessa, ritardando il pieno manifestarsi dell’apostasia e dell’Anticristo che per San Paolo ne sono la condizione necessaria? Ed allora, non sarebbe forse meglio fare il contrario, e cioè

B) fare in modo che tale manifestazione, e dunque i processi spirituali, antropologici, sociali, economici, esprimano in pieno i loro devastanti ma, alla luce di quanto scrive San Paolo, inevitabili effetti, e con ciò accelerare anche la Parusia? Scelta difficilissima, mi rendo conto, e che non mi sento affatto di avallare. Perché certamente non ci sarà dato vederla, e perché comunque implica una fede così salda e inossidabile che non mi appartiene. Rimarrei, e credo molti con me, con l’unica certezza di aver collaborato al male anche se con fine di bene. Umanamente troppo difficile da reggere. Mi chiedo piuttosto se, ammettendo l’esistenza di un superiore disegno divino entro gli accadimenti umani, vi rientri anche l’operato di Bergoglio che, mi sembra, si situa all’opposto della funzione frenante del Katechon.

Volendo fare un parallelo profano, è la stessa problematica che si propone fra chi intende lottare contro i processi economici del capitalismo mondialista e globalizzatore per salvare il salvabile nella speranza che nel frattempo sorgano alternative credibili, e i così detti accelerazionisti  (Toni Negri , ad esempio), coloro cioè che derivano da Marx (a mio avviso sbagliando) la convinzione che sia necessario, per l’avvento del comunismo, che il capitalismo consumi tutte le sue potenzialità in quanto solo nel suo seno nascerebbero le condizioni per il passaggio.

C) “abbandonare questo mondo” al modo, in senso lato, che intende il marxista (o ex tale) eretico Jacques Camatte. Per lui, ogni “lotta”, ogni contrapposizione frontale, ogni ricerca del “nemico”, ha ormai l’effetto di rafforzare questo sistema perché si svolgerebbe pur sempre nel suo ambito, sulla base dei suoi paradigmi. Unica strada, invece, sarebbe quella di estraniarsene, prima di tutto psicologicamente e culturalmente, ma per quanto possibile anche concretamente. E dunque, cercare di riconquistare la perduta (per cause anche oggettive su cui non mi soffermo) continuità con la natura/cosmo. E’ stata quella rottura, per Camatte, che ha implicato una immensa erranza dell’umanità col venire meno della comunità gemeinesen, e le correlate distorsioni nei rapporti umani inclusi quelli fra genitori e figli. Sul piano concreto ciò significherebbe non tanto l’abbandono di ogni strumento tecnico offerto dalla modernità (non è questione di diventare eremiti), ma limitarsi a ciò che è strettamente indispensabile. A mio avviso si tratta di una prospettiva senza dubbio stimolante, ma col punto debole di essere fatalmente praticabile solo da poche persone, almeno nel nostro mondo sviluppato. Forse lo sarebbe maggiormente là dove non si è ancora buttato al macero ogni concezione tradizionale e ogni religiosità autentica, ma in questa parte del mondo? Far crescere questa estraneità poco a poco, sicuramente in senso psichico e intellettuale ma anche con esperienze concrete, necessariamente di nicchia, nella speranza che arrivino a formare massa critica?

Con qualche indubbia forzatura, si possono, forse, individuare alcune somiglianze; sul piano individuale col “passaggio al bosco”, metafora di estraneità interiore, dell’anarca jungeriano, su quello collettivo con le comunità Amish o Hutterite presenti in nord America, che, pur avendo alcuni indispensabili rapporti col mondo “di fuori”, coltivano al loro interno pratiche di vita altre.

Più in generale, mi interrogo, esiste una relazione di parentela/somiglianza, fra l’attuale decadenza cui, per i cristiani, porrà fine la Parusia, e la dottrina indù dei cicli cosmici (yuga) di cui l’attuale rappresenterebbe il punto più basso anche spiritualmente (Kali Yuga o età del ferro), ciclo destinato ad essere soppiantato in tempi non esattamente determinabili da una nuova età dell’oro o Satya Yuga?

LA QUESTIONE DEL DENARO/DEBITO

Nel concordare sul concetto, non si può non notare che l’attuale è la fase finale dell’evoluzione di un capitalismo che, potremmo dire, nella incessante ricerca di massimizzare il profitto, finisce per divorare se stesso nel senso della tendenza a eliminare la fonte stessa della ricchezza sulla quale è nato e prosperato. Nelle sue fasi precedenti, a) dapprima il denaro fu uno strumento, un intermediario per l’acquisizione di merci atte a soddisfare i bisogni umani. Nello schema marxiano ciò si rende con la triade M-D-M (merce-denaro-merce). Siamo ovviamente, già in una società mercantile (mercantile semplice la definisce Marx), distante da quella medievale in cui l’economia era incorporata nella società politica da cui dipendeva ed in cui i legami personali fra soggetti e gruppi umani erano diretti piuttosto che mediati da cose. Purtuttavia, bisogni e necessità delle persone continuavano ad essere la base dello scambio ed il suo scopo. b) A questa fase succedette quella rappresentabile con lo schema D-M-D’. in cui il denaro accresciuto diventa lo scopo finale e la merce funge da mezzo. Il rovesciamento di prospettiva è evidente ed essenziale, con ricadute sul significato stesso del termine “bisogni”, divenuti ora qualcosa di indirizzabile e manipolabile, e della loro soddisfazione. Con tutto ciò, tuttavia, il denaro ed il suo accrescimento rimanevano pur sempre ancorati, quindi dipendenti, dalle cose/merci. c) E’ solo nella fase attuale, con la prevalenza assoluta del capitale finanziario, che il denaro si accresce su se stesso (D-D’), del tutto disintermediato quindi generante una ricchezza del tutto astratta, impalpabile, pura convenzione. Il capitale ha minato le sue basi reali e posto quelle per crisi sempre più rovinose, ma soprattutto per la possibilità di espropriare le persone di ogni loro avere con un semplice clic su un computer da parte degli inventori e padroni privati del denaro/rappresentazione.

Alla questione del denaro debito si salda quello del rapporto fra prestito e usura, anch’esso ricordato nell’intervento di venerdì 28, e che da sempre è stato al centro di importanti riflessioni nella Chiesa. Si può affermare in proposito che fin dall’antico testamento, ed al netto della distinzione in esso presente fra il popolo eletto e gli altri (verso i quali non esistevano proibizioni di pratiche finanziarie) non è solo l’usura, sulla quale la Chiesa è sempre stata fermissima, ad essere proibita, ma il problema è nel prestito a interesse in quanto tale [lo si evince dal Libro dell’Esodo (Es22, 20–26), dal Levitico (Lv25, 35–38), dal Deuteronomio (15,1–11), (23, 20–22), (24, 10–13)], perché suscettibile di distruggere la struttura sociale comunitaria. Nella comunità, se l’interesse sul prestito è semplicemente escluso, il prestito stesso deve essere rimesso, dall’uomo probo, normalmente in giornata, e comunque, ope legis, non oltre un settennio. Di queste prescrizioni se ne dà anche la motivazione: il prestito è inammissibile all’interno della comunità perché distrugge ogni relazione d’amore e di fiducia, essendo dominio sull’altro “e tu farai dei prestiti a molte nazioni, e non prenderai nulla in prestito; dominerai su molte nazioni, ed esse non domineranno su te”. Per questo è proibito sia nel dare che nel chiedere: se dare in prestito significa assoggettare qualcuno e quindi dare in prestito a un amico trasforma la relazione, non di meno chiedere un prestito a un amico significa chiedere di uscire dalla relazione di amicizia. Ecco di ciò anche nella celebre raccomandazione di Polonio a Laerte (Amleto, I,3) “Non prestare soldi e non fare debiti, perché ciò che si dà in prestito spesso si perde assieme all’amico”.

SULLA PROPRIETA’ PRIVATA.

L’accenno alla sua importanza, anche per la Chiesa, ed alla necessità di tutelarla, fa andare immediatamente il pensiero a pensatori cattolici quali Chesterton, McNabb, Belloc, ed alla teoria del “distributismo”, per la quale era essenziale che la proprietà privata fosse non solo tutelata ma massimamente diffusa. E non solo, ovviamente, quella della casa o degli oggetti, ma soprattutto dei mezzi di produzione, in modo che ogni famiglia producesse quanto le fosse necessario il più possibile in proprio e senza impiego di lavoro salariato. Una società insomma, che non è possibile definire capitalistica se, correttamente, si definisca il capitale non tanto come uno stock quanto invece come un rapporto sociale. E d’altra parte il denaro può diventare capitale solo attraverso lo scambio col lavoro vivo. Si può dunque concludere che Chesterton incorse in errore quando in The Uses of Diversity (1921), scrisse: «Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti». Dal canto suo McNabb, in La Chiesa e la terra, (Libreria Editrice Fiorentina 2013), descrive in modo convincente il sistema della proprietà privata in comparazione con quello del lavoro salariato, evidenziando i vantaggi del primo sul secondo su tutti i piani, compresa la giustizia sociale. Affascinante, senza dubbio. L’obiezione è, oggi, sulla sua reale praticabilità, posta l’enorme dimensione delle imprese richiesta dal mercato e dalla concorrenza, nonché dalla tecnica, e dalla necessità di “mostruose” infrastrutture e un sistema di trasporti complicato e massimamente esteso. Una struttura economico/sociale di tipo distributista prevede la valorizzazione della produzione agricola (con metodi tradizionali) per l’autoconsumo, la riduzione della struttura industriale, una estesissima rete di piccole aziende familiari, la contrazione drastica del mercato, la rivisitazione del concetto di sviluppo in assonanza con concetto di “decrescita felice” di Latouche.  Magari, ma quanto praticabile, mi chiedo? Noto, di passaggio, che tempo addietro posi al Movimento Distributista Italiano una domanda sul problema rappresentato dalle dimensioni delle aziende, ottenendo la risposta, invero un po’ deludente, che la sola cosa importante è il tipo di proprietà.  Né i problemi potrebbero a mio parere essere risolti con quella che viene definita “la società partecipativa”, ovvero la partecipazione dei lavoratori alla proprietà ed alla gestione delle aziende, e nemmeno, aggiungo, con la proprietà cooperativa. La contraddizione semplicemente si riprodurrebbe su un piano diverso, ma con uguali modalità e con le identiche dinamiche in fatto di concorrenza, e di produzione per il mercato (quindi sottostando alle sue logiche). 

E dunque? Posto che a) la proprietà collettivistica statale conduce ad una forma di dispotismo (Costanzo Preve definì il socialismo reale come comunitarismo forzato, quindi falso), b) che le logiche interne del capitalismo liberale tendono verso gli oligopoli prima e poi verso il monopolio, che non è affatto vero che il mercato è dotato di meccanismi automatici di autocorrezione, e tanto meno è ormai credibile l’intervento della smithiana mano invisibile che trasformerebbe miracolosamente l’egoismo dei singoli in bene collettivo, si può concludere che siamo in una impasse. Non sembrano esistere soluzioni attuabili a portata di mano. Nondimeno il problema rimane. Problema una soluzione al quale può forse essere intravista in una struttura sociale di tipo comunitarista che salga dal basso verso l’alto, in cui lo Stato, quali che siano le forme della proprietà, sia l’apice di una piramide funzionante secondo il principio di sussidiarietà e con la massima partecipazione attiva di tutti i cittadini, quindi una loro autentica espressione.

Il tema della proprietà, del capitalismo liberale e dei suoi effetti, conduce, inevitabilmente, a parlare anche delle concezioni in materia sociale ed economica della Chiesa

 LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

Non credo possano esservi dubbi sul fatto che nelle prime comunità cristiane, sulla base dello spirito originario, ed anche della lettera, dei Vangeli, vigesse il principio della comunità dei beni necessari alla vita. Principi e pratiche di vita  modificate progressivamente in concomitanza con l’emergere delle economie cittadine e delle prime forme di capitalismo, nel mentre si sgretolavano l’economia curtense e la concezione medievale dell’uomo.

La Chiesa cerca di inserire l’attività economica fiorente in un disegno divino complessivo che serva da cemento sociale (i poveri occasione e veicolo di salvezza per i ricchi). Tiene fermi perciò alcuni principi evangelici, quali la carità e l’aiuto ai bisognosi, ma nello stesso tempo li colloca in un contesto affatto diverso: dalla originaria e radicale comunione dei beni si passa alla carità su base volontaria; dalla denuncia senza compromessi dell’usura, si passa ad ammettere (certo a determinate condizioni, almeno all’inizio) il prestito a interesse; da Matteo 6.19 ( là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore) si passa a considerare la ricchezza e i beni materiali come strumenti neutri, usabili (ma ovviamente anche e soprattutto accumulabili) a fin di bene. Si tratta di una linea di riflessione che ritroviamo nei secoli successivi fino ai nostri giorni e che impregna di sé la Dottrina Sociale della Chiesa.

Tralasciando per brevità la storia del mai cessato dibattito teologico e delle encicliche che si sono espresse nel merito della questione sociale, e notando che la prima impostazione organica del problema sociale risale all’enciclica Rerun Novarum, nel 2004 il tutto fu sistematizzato nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa .

Per Giovanni Paolo II (Centesimus annus, definizione poi ripresa nel Compendio alla tesi 335):

<<Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d’impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera». Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.>>

La problematicità di questa affermazione sta nel fatto, mi sembra, che implica, in definitiva, l’accettazione delle leggi dello sviluppo capitalistico come leggi economiche naturali ed oggettive.

Leggi che, lasciate a se stesse provocano effetti negativi (polarizzazione fra ricchezza e povertà, sfruttamento) ma che, se rettamente indirizzate dalla teologia morale e dall’etica cristiane, sono atte e produrre effetti positivi.

Così è per la divisione del lavoro, il rapporto di lavoro salariato, la nozione di sviluppo e quindi di accumulazione, la libertà d’impresa e quindi la concorrenza, il mercato come spazio anonimo in cui si scambiano merci o servizi prodotti da anonimi produttori e quindi il denaro non solo quale equivalente universale ma soprattutto forma per eccellenza del capitale. Sarà però il capitalismo  stesso a sviluppare tali elementi fino alle estreme conseguenze secondo la sua logica interna, travolgendo quelle istanze etiche e religiose da cui sarebbe dovuto scaturire il contesto giuridico di cui parla Giovanni Paolo II. Si potrebbe dunque sostenere, in sintesi, che nel suo complesso la storia della Chiesa è (anche) storia di una progressiva accettazione, benché sempre mitigata da istanze morali, dei rapporti sociali alienati culminanti nel denaro come forma ed espressione del capitale, in origine rifiutati in quanto intrinsecamente contrari allo spirito comunitario del Nuovo Testamento; e conseguentemente, anche storia della rinunzia a fa valere le istanze comunitarie e antiutilitaristiche in ogni ambito della vita sociale, accontentandosi di mantenerle vive in ambiti più ristretti come la famiglia .

Siamo distanti, mi pare evidente, anche dalle concezioni del Distributismo, pur anch’esso nato in ambito cattolico e pur necessitando anch’esso, per funzionare, di una forte fede religiosa, come ammesso esplicitamente dai suoi teorici.

Voglio concludere queste osservazioni che, ripeto, hanno il solo scopo di evidenziare i problemi e non certo di azzardare risposte, con una brevissima nota di geopolitica sulla Cina (e su altre potenze sedicenti comuniste), a cui si è accennato nell’intervento. Nessun dubbio si tratti  di un paese “capitalistico” in economia, e autoritario in politica, seppure tale autoritarismo venga usato anche per indirizzare l’economia piuttosto che esserne succube. Di certo rimane che la Cina non può costituire un esempio cui guardare. Eppure ritengo che la sua (e della Russia) presenza forte nel mondo  sia necessaria affinché non si richiudano le contraddizioni a solo e tutto favore degli Stati Uniti quale unica potenza in grado di decidere incontrastata le sorti del pianeta. Se, dopo il fallimento del socialismo reale a cui in tanti avevano guardato con speranza, i popoli sono di nuovo alla ricerca di una alternativa alla deriva nichilista e materialista (materialismo e ateismo ormai ridotti a mera pratica quotidiana, senza quella dignità che pure aveva l’ateismo tragico, come notava Del Noce), ritengo che la si potrà (forse) iniziare a individuare solo negli spazi lasciati aperti dalle contraddizioni fra area atlantica e area eurasiatica; anche col terribile rischio che la nuova guerra fredda in corso possa degenerare in guerra guerreggiata, per evitare la quale è dovere morale agire per ciò che ciascuno può fare.

Armando Ermini

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