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Gentili amici, in questo afflitto mese di marzo,vorrei condividere con voi un pensiero sul SACRIFICIO, il fattore forse più emblematico della condizione umana accanto a nascita, morte, eros e potere. Zolla ha meditato a lungo sulle diverse accezioni del suo significato nelle culture di Oriente e Occidente e il punto di partenza a casa nostra è il termine neutro latino: sacrificium, composto di sacrum e facere, alla lettera: “fare il sacro”. Perché mai si tratterebbe di un atto non prosaico ma appartenente alla sfera del sacro? E perché la parola, a differenza dell’italiano, è di genere neutro in latino, in greco e in sanscrito: to ierón e yajña?
Nella prospettiva delle antiche lingue indoeuropee, rinunciare, offrire, compiere un’offerta e soprattutto la massima: il sacrificio della vita, è un atto di immolazione che sovrasta le distinzioni di genere. E nel conflitto tra aggressore e aggredito la vittima, per il dolore estremo che comporta – è vittima comunque!
Lo affermava Zolla in Che cos’è la tradizione (1961), scrivendo: «Nella nostra civiltà c’è un triplice spiraglio del divino: nella scienza che deve essere pura per poter essere utile in seguito, nella bellezza cui si sia per avventura sensibili e nella disgrazia più profonda che non si sopporti per aderire a una forza, ma per essere crocifissi.»
Chi ha presente la frase di Dostoevskij ne L’idiota: «La bellezza salverà il mondo», farebbe bene ad aggiungere: «se il mondo salverà la bellezza»! Niente di più giustificato in questi frangenti!
Occorrerebbe persuadersi che solo individui di anima pura – come lo sono per vocazione i contemplativi, i mistici e i poeti, distanziati dal mondo e proprio per questo capaci di entrarvi più a fondo – sanno riconoscere con reverenza la norma che regge impassibile ogni livello del mondo vivente: terreno, minerale, vegetale, animale, umano. E la norma è : l’inevitabilità del sacrificio. Non c’è sofferenza inflitta al singolo che non si ripercuota sull’intera Terra di cui sia l’aggressore che l’aggredito sono figli. Ricordiamolo! Scolpiamocelo nel cuore mentre i semi di questa e innumerevoli precedenti primavere premono per nascere, colmi di vita nuova!
Zolla nel 1958, al tempo in cui era redattore della rivista romana «Tempo presente», pubblicava un saggio memorabile: Prometeo e Orfeo nemici dell’Occidente. Ne riporto alcuni brani ruotanti esplicitamente e implicitamente sul SACRIFICIO:
«L’Occidente è vissuto e forse perirà per il dissidio dei due miti che si contendono il campo nel suo spirito: l’orfico e il prometeico. PROMETEO sottomette la natura al prezzo di aspre sofferenze, reprimendo in sé ogni spontaneità e armandosi contro Pandora, il disordine. ORFEO placa la natura, mirando non a soggiogarla ma a conciliarsi con essa, ad ammansire non a reprimere. Tanto Prometeo che schianta e schiva ogni ostacolo sul suo cammino quanto Orfeo armato della sua lira sono ideali inattuabili nella nostra civiltà. Il titanismo e la seraficità sono inadeguati a ispirare la vita quotidiana, eppure il mito prometeico appare «realistico». Di fatto, educare i giovani ad ammirare le gesta impossibili dell’eroe prometeico, che è pura efficienza e disprezzo degli affanni e degli affetti, significa […] esporli a venire travolti e schiacciati.
Toccherà piuttosto promuovere il movimento orfico […] contro il regno dell’arbitrio e della legittimazione del ricorso indiscriminato alla forza, ora che l’uomo si va pietrificando nello spirito di Prometeo. Montaigne nel capitolo sui «cannibali», Diderot nel Supplemento al viaggio di de Bougainville e Melville navigando nei mari del Sud, proponevano un modello di convivenza orfica. Non diversamente Engels nell’Origine della famiglia cercava nel pozzo profondo del passato gentilizio una prefigurazione del regno della libertà. Sempre più inquieta e all’apparenza oziosa diventa oggi la ricerca del modello capace di smentire il tratto realistico del dileggio che la nostra civiltà prometeica rovescia addosso al sogno orfico. Margaret Mead scoprì negli indigeni Arapesh della Nuova Guinea un sistema sociale esente da crudeltà e violenza, dove sembra però che questa esenzione si scontri con l’inerzia del pensiero, la superficialità del sentire, la paura del fascino amoroso. Fra i Ciambuli, sempre nella Nuova Guinea, la Mead scoprì un ordinamento dove la crudeltà ha il suo posto, ma è in certo modo superata dal fatto che tutto ruota attorno all’attività estetica: i riti di iniziazione non servono a formare gli adolescenti, al contrario l’iniziazione è il pretesto per allestire sontuose cerimonie. Meno suggestivo era l’esempio dei Bororo esplorati da Lévy Strauss. E quanto agli indigeni Piaroa del Venezuela visitati da Giorgio Costanzo che ne ha raccolto i canti in Poesie degli Indios Piaroa, (Scheiwiller, Milano 1957), si tratta di un popolo, da quel che se ne sa, esemplare e propriamente orfico.
Vivono fra putride foreste e livide savane; forse in tempi remoti ebbero per patria una terra meno avara e insidiosa: il rifiuto della violenza li ha confinati in un ridotto tropicale protetto dalla miseria e l’habitat impervio, dove la tisi stronca prima che loro raggiungano l’età matura. Nudi, abitano capanne vastissime arredate di amache e sgabelli, coniugano i verbi al solo presente. Non solo tollerano senza ribellarsi le efferatezze e i ratti dei bellicosi vicini e dei bianchi (gli «uomini pelosi dagli occhi lucenti » e dalla «voce di cane»), ma fra loro non ricorrono mai alla sanzione punitiva. Esistono forme d’allontanamento per la nube tempestosa, per lo spirito del male, per l’adultera alla quale si voglia negare il perdono, ma il gesto chirurgico della punizione è ignoto. Invece di un capo dotato di autorità, c’è un uomo probo che consiglia, e il mago è colui che «si preoccupa» dei malati. Chi viene colpito dalla riprovazione sociale, si allontana dal villaggio: andrà a rifugiarsi fra i bianchi o in una tribù diversa, ma è facile che scompaia nella selva per uccidersi. I bambini non sono messi in riga dalle persone ma dalla minaccia di essere ignorati dalla comunità. Dice Costanzo che «i Piaroa camminano con passo morbido ed elegante, parlano poco e a voce bassissima, non gesticolano, non manifestano reazioni di meraviglia, di sorpresa, di paura». Si intrattengono coi fiori e gli animali, mormorano poesie fra sé e sé modulando variamente la voce. La loro economia è rudimentale, la pesca e il commercio del curaro sopperiscono ai bisogni: la religione, altrettanto semplice, non conosce manifestazioni vistose. I giovani e le giovinette si frequentano liberamente ma il costume di farsi doni prima del matrimonio è oggetto di riprovazione. Il che è una garanzia di purezza nei loro rapporti. Il matrimonio si celebra con un pasto comune, senza speciali cerimonie. Benché monogami, in certi casi non escludono la poligamia. La libertà erotica fra loro è pari a quella tra i Samoani studiati da Margaret Mead […]. Nelle vaste capanne in cui abitano, non si muore né si fa l’amore. Amanti e moribondi si rintanano nella foresta, e così si preserva la sacralità della morte e dell’atto amoroso. Al sopraggiungere delle piogge, si radunano nell’aia comune del clan danzando, agitando la testa, il tronco immoto e scuotendo freneticamente le gambe. S’interrompono per attingere a una conca una bevanda profumata, e cedono soltanto quando sono esausti . Così dice una loro poesia:
Com’è bella la danza dei ragazzi! / Io, vecchio, danzo nell’amaca,/
i miei piedi sono freddi. / Lontano, nella selva/
presso la grande pietra nera, / solo la tigre li scalderà col suo fiato./
Quando sarò morto / voglio danzare con piedi di bambino/
davanti alla luna / al tempo in cui la pioggia farà luccicare le pietre.
Da Un popolo inerme, in E. Zolla, Gli arcani del potere, Rizzoli, Milano 2004)
Con le testimonianze degli etnologi citati, Zolla ci ha condotto dove il SACRIFICIO assume il volto incolpevole del vecchio dai piedi freddi che non può che danzare immobile nell’amaca, incapace di sventare Prometeo «dagli occhi lucenti, dalla voce di cane».
Grazia Marchianò, ©2022