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Nella produzione spengleriana si segnala un breve lavoro pubblicato nel 1931, Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens,[1] (L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita), che si muove fra una valutazione della tecnica in generale e l’analisi di una tecnica specifica, collocata storicamente, in quanto prodotto della cultura occidentale. Partendo dalle differenti accezioni del termine, lo storico colloca questo concetto fra il conoscere e l’operare, la capacità intellettuale e la manuale, l’astuzia e l’abilità, e trova nel concetto di “tattica” (Taktik) la sintesi delle diverse accezioni.
Um das Wesen des Technischen zu verstehen, darf man nicht vor der Maschinen-technik ausgehen […] In Wirklichkeit ist die Technik Uralt […] Die Technik ist die Taktik des ganzen Lebens. Sie ist die innere Form des Verfahrens im Kampf, der mit dem Leben selbst gleichbedeutend ist.[2]
La tattica, sottolinea Spengler, è una disposizione mentale necessaria per affrontare la vita, per la sopravvivenza e l’affermazione, e, chiarisce, non deve essere confusa con lo strumento (Werkzeug), che è solo il prodotto, l’applicazione della disposizione mentale originaria:
Es kommt nicht auf die Herstellung von Dingen an, sondern auf das Verfahren mit ihnen, nicht auf die Waffe, sondern auf dem Kampf […] Es gibt zahllose Techniken ohne irgendwelche Werkzeuge […] Es gibt eine Technik der Pinselführung, des Reitens, der Lenkung eines Luftschiffes. Es handelt sich nicht um Dinge, sondern immer um eine Tätigkeit, die ein Ziel hat.[3]
Questa attitudine, funzionale alla lotta contro la natura per la sopravvivenza e il dominio, caratterizza l’esistenza dell’essere umano, che si afferma e si riconosce in questo operare. Si tratta, sottolinea Spengler, di un “metodo” (Methode), di una “astuzia” (List), che per l’uomo costituisce l’arma primordiale (Urwaffe) per mezzo della quale “die Natur überlistet wird” (la natura è vinta).
Si crea a questo punto un singolare parallelismo fra il concetto di astuzia e quello di tecnica, o meglio i due concetti si omologano nella comune funzione di far sì che l’essere umano possa vivere ponendo rimedio alle sue carenze naturali. Per farlo egli deve ingannare, ossia deve creare un mondo “falso” epperò propizio alla sua sopravvivenza, visto che nella pura naturalità finirebbe col soccombere. Per sopravvivere l’uomo deve ingannare, mentire, falsificare. Così come era solito fare il suo progenitore, primo fra gli “intelligenti”, il polymetis Odisseo, quale padrone della tecnica della menzogna, o meglio di una tecnica che in sé ha il potere di ingannare. Fra gli episodi che mostrano l’essenza di questa figura d’eroe, abbiamo l’incontro con Polifemo, narrato nel Libro IX dell’Odissea, che vede i Greci e la loro flotta di tredici navi giungere nella terra dei Ciclopi, giganti antropofagi, dotati d’un solo occhio, che abitano un’area ricca di messi, pur se, nel loro stato di “inciviltà” non coltivano nulla. Essi non hanno l’intelligenza per farlo; del resto non hanno bisogno di intelligenza, in quanto la natura è loro favorevole e non deve essere dominata. Ogni prodotto viene loro offerto grazie al potere di Giove, saggio regolatore del tempo atmosferico. Non hanno leggi, non hanno una comunità, perché ciascuno vive isolato sulla sommità della propria montagna. Essi vivono in una compiuta animalità, hanno scarsa dimestichezza con il linguaggio verbale e comunicano poco tra loro.
Approdati presso l’isola sulla quale si vedono solo capre e montoni pascolare liberamente e non si scorge alcuna opera agricola, i Greci si adoperano in una caccia ben semplice, catturando nove capre per ciascuna delle 12 navi, mentre quella di Odisseo ne riceve 10. Dopo aver mangiato e bevuto a sazietà, riposano in attesa del nuovo giorno, allorché Odisseo decide di inoltrarsi nell’isola con una scorta di 12 uomini, scelti fra i più valenti. Si tratta dell’isolotto dove abita sul monte più alto “un gigante mostruoso, lontano da tutti, non simile all’uomo che si nutre di pane” (vv. 236 ss.). Nella loro ricognizione, seguendo il previdente consiglio del loro capo, portano con sé un liquore, esattamente un “vino nero dolce” (melanos oinoio, edeos” (vv.196 s.), che era stato dato in dono a Odisseo da Marone, sacerdote d’Apollo. Si tratta, viene ripetuto, di un vino “dolce e puro, bevanda divina” (edyn akerasion, theion poton, v.205). Lo portano con l’intenzione di regalarlo al ciclope in cambio di ospitalità. Nella consapevolezza che un tipo bruto avrebbe gradito la sostanza tanto forte che, per essere bevuta in maniera corretta – tra l’altro era riservata solo alla famiglia del sacerdote – doveva essere mescolata con venti misure d’acqua.
Il gruppo, una volta entrato nell’enorme spelonca, sacrifica agli dei, accende il fuoco, si nutre e rimane in attesa del ciclope, che appena giunto chiude l’ingresso con una pietra enorme, quindi una volta acceso il fuoco, si rende conto della presenza degli stranieri e si rivolge loro, chiedendo da dove vengano, se per caso siano pirati. A Odisseo, che narrata la propria origine, chiede doni ospitali nel nome di Zeus, il gigante replica di non temere Zeus e gli dei, e a sua volta chiede dove abbiano lasciato la flotta. Qui Odisseo, nella sua ragionevole previdenza, mente, dicendo che la flotta è stata distrutta da Poseidon. L’immediata reazione di Polifemo consiste nel prendere due uomini, schiantarli al suolo e cibarsene; quindi beve latte e si addormenta. Odisseo potrebbe coglierlo nel sonno e ucciderlo, ma il problema sta nella chiusura della grotta, in quanto, dato l’enorme peso del masso, lui e i suoi non hanno forza sufficiente per spostarlo.
Un nuovo pasto consistente in altri due omini sacrificati nel giorno successivo viene consumato da Polifemo, che questa volta lo accompagna con tre bicchieri del vino inebriante astutamente offertogli da Odisseo, che nel frattempo assieme ai suoi compagni aveva lavorato un grosso tronco di ulivo per colpirlo al momento opportuno. Quindi rivela al gigante il proprio “nome famoso” (onoma klyton, v. 364) dietro sua promessa di concedergli un dono. Però mente, dicendo di chiamarsi “nessuno” (outis emoi g’onoma”, v.366), e in cambio richiede il dono che gli era stato promesso. Verrà ucciso e mangiato per ultimo: in questo consiste il dono che il Ciclope gli offrirà.
Il racconto procede con il profondo sonno in cui cade Polifemo e il suo accecamento con il palo dalla punta ardente. Alle sue grida accorrono i Ciclopi abitanti dell’isola, ma alla domanda su che cosa sia accaduto o meglio chi lo stia derubando o minacciando, Polifemo grida il nome a lui noto: “nessuno”, sì che i giganti frettolosamente accorsi se ne tornano nelle loro case.
Segue l’abile fuga dei Greci, che approfittano delle capre per nascondersi nel loro folto vello, e che, una volta in mare, si allontanano velocemente con le loro navi, schivando gli enormi massi che il gigante getta contro di loro. Pur non essendo del tutto in salvo, Odisseo, per una volontà di rivalsa, nonostante venga sconsigliato dai suoi uomini, grida il proprio vero nome, provocando l’ulteriore rabbia del gigante che nel ricordare un’antica profezia secondo la quale sarebbe stato accecato, esprime la propria meraviglia che a farlo non sarebbe un essere grande e forte ma un debole uomo. Contro il quale chiede l’intervento di Poseidon, affinché non gli faccia raggiungere la sua meta, o almeno gli renda ben arduo il viaggio.
Scampati al pericolo, i Greci celebrano la salvezza con un buon pranzo e bevendo del vino, ma non quello divino e inebriante, bensì quello ben trattato, alleggerito e reso sano prodotto alimentare[4]. Questo dato indica che esiste un vino vero “merum” ed uno falso, menzognero che obnubila la mente e che, nel riproporre in sé la caratteristica di Odisseo (la sua capacità d’ingannare) diviene funzionale al suo piano. L’eroe, per ordire il suo inganno, ha trovato nella “falsità” di quel vino il più fedele alleato.
Unitamente al principio dell’inganno, il tema fondamentale, la costante, di questa avventura dell’eroe, è il linguaggio, che percorre prepotentemente l’intero episodio e ne offre la soluzione. Risulta singolare e difficilmente spiegabile il nome del ciclope Polifemo, dal momento che il termine non ha a che vedere col suo essere di gigante monocolo, mentre indica un parlare molteplice, e viene quindi tradotto con “colui che parla molto” o “chiacchierone” o piuttosto come “colui del quale si parla molto”. Non esiste la parola “polifemia”, mentre esiste il termine “polisemia”, ad indicare “un vocabolo portatore di più significati” (Treccani) e quindi ambiguo. Similmente potremmo individuare nel pur inesistente “polifemia”[5] un parlare ambiguo, incapace di rapportarsi con quel che si vorrebbe chiaramente designare. Infatti è proprio questa incapacità del gigante di pronunziare il giusto termine, ossia il nome vero di Odisseo, che lo rende confuso e vittima dell’eroe.
Oltre all’essere monocolo ed enorme, Polifemo, come precedentemente indicato, si caratterizza per il suo stato di solitudine quale rude pastore, lontano da ogni società, nella sua caverna ubicata sulla cima più alta dell’isola. Il più solo dei solitari diremmo, perché anche quella dei ciclopi suoi conterranei non è una società, in quanto “vivono senza leggi”, o ancor più in uno stato pre-culturale, per il quale non curano la terra, non seminano, perché i frutti si offrono spontaneamente grazie alla benevolenza di Zeus (vv.135 ss.). I Ciclopi vengono quindi ubicati in una sorta di terra della Cuccagna che, proprio per questa ragione spinge Odisseo ad avventurarsi in quei luoghi, avendo comunque la cura di portare con sé un ricco dono: il denso liquore che i primitivi abitanti naturalmente non posseggono né conoscono, pur avendo uva in abbondanza, in quanto il vino necessita di lavoro per la sua produzione, mentre essi vivono in ozio nel loro Eden.
Notiamo che il fatto di offrire il vino, ci riporta ai viaggi compiuti da Dioniso, il cui scopo è quello di civilizzare i popoli insegnando loro la coltivazione della vite e la produzione della bevanda. Similmente potremmo allora concepire un Odisseo “dionisiaco”, che nella compiuta imitazione del dio, offre il vino a chi dovrebbe ospitarlo, mentre ha l’intelligenza di non berlo. Dioniso infatti non è un dio ebro, è moderato, semmai fa ubriacare gli altri, dal momento in cui non lo riveriscono, vale a dire non accettano il ricco dono che egli offre loro.
Altro parallelo si presenta fra il rifiuto del ciclope di ricevere il dono del vino come segno di rispetto e coloro che rifiutano il dono di Dioniso, ai quali il dio per punizione fa perdere la ragione o più specificamente la capacità di un corretto vedere, sostituito da uno stato allucinatorio, di totale ebbrezza. Evidenziamo la stretta connessione fra il vedere e il conoscere, data la relazione fra il proto indoeuropeo weyd e il greco eidon (da questo deriva idea), per cui il vero conoscere si ha attraverso la vista e l’ignorante è colui che non vede. A meno che la mancanza della vista venga bilanciata e compensata da un potere mantico, che veniva concesso all’aedo e ai veggenti in genere che, privati della conoscenza del qui ed ora, venivano premiati con la conoscenza dell’altrove e del futuro.
Come coloro che non accettano il culto dionisiaco, dalla coltivazione della vite alla produzione corretta del vino, e pertanto vedono alterarsi i loro sensi per diretto intervento del dio, anche Polifemo non concede a Odisseo l’accoglienza richiesta, e pertanto riceve come castigo un vino cattivo, velenoso, che lo pone in balia dell’eroe.
Dicevamo del posto centrale occupato dal linguaggio in questa vicenda: ebbene, ripercorrendo alcune fasi della narrazione, vediamo che dopo un secondo pasto cannibalico e l’offerta della pericolosa bevanda – il gigante ne beve tre bicchieri, trovandola deliziosa- Ulisse mette in atto il piano sapientemente preparato, mentendo a Polifemo per quel che concerne il proprio nome, approfittando tra l’altro del fatto che questi ci sa fare molto poco con le parole, abituato del resto ad una solitudine riempita solo dalle capre, con le quali vive quasi in simbiosi come un capo branco (per comunicare con loro non ha bisogno del linguaggio umano), e dalla cura che egli dedica loro. Odisseo gli rivela, seguendo un piano perfettamente concepito, il suo falso nome: “outis”, “nessuno”, ovvero “non qualcuno” (“ou tis”)[6], con il quale lo chiamano, egli dice mentendo, genitori ed amici (vv. 365 ss.).
La sequenza degli eventi si traduce nell’inutile intervento dei Ciclopi corsi in aiuto dell’accecato, che nel gridare il nome fallace di chi lo starebbe attaccando, non si limita a indicare il niente, ma fa sì che i suoi conterranei possano dedurre che, non trattandosi di un umano, a colpire il loro conterraneo sia Zeus, nei confronti del cui male (nouson) essi non hanno potere. Sì che mentre essi se la danno a gambe, a Polifemo non resta che seguire il loro consiglio di invocare il padre Poseidon. Singolare dunque che il fatto di non indicare nessuna presenza umana (outis doveva suonare esattamente come “non uno qualunque”, “non un semplice umano”), invece di affermare un’assenza, possa indicare una presenza ben più forte, tanto da far fuggire i soccorritori. In altri termini l’eroe, grazie alla sua polymetes, non si limita a far pensare ai soccorritori che il ciclope stia vaneggiando – altrimenti sarebbero accorsi ugualmente in suo aiuto – ma dà loro la certezza che stia dicendo la verità pur in maniera indiretta, non osando pronunziare il nome del sommo dio. Finalmente il nessuno suggerito da Odisseo non è il niente ma è qualcosa di estremamente grande, il sovraumano, dinanzi al quale arretrano coloro che, pur ribelli, devono accettare il suo potere e dominio.[7]
Dopo essersi rallegrato dell’efficacia del proprio inganno, Odisseo, per poter salvare la pelle, è costretto a mettere in atto altri inganni ed astuzie (“dolous kai metin”), come del resto è necessario per la sopravvivenza umana: “oste perí psychés”. Risultano esemplari queste espressioni, con le quali si evidenzia l’inefficienza della condizione umana, l’incapacità dell’uomo d’essere naturalmente per la vita, e di dover continuamente inventare inganni, astuzie, vale a dire tecniche che ne permettano la sopravvivenza. L’uomo è un essere incompiuto, sostiene Gehlen[8], non in grado di sopravvivere se non viene sostenuto e se non può controllare l’ambiente attraverso le sue invenzioni: questo comunica Odisseo nella sua serie ininterrotta di inganni, che non sono altro che il continuo operare per la sopravvivenza in un mondo non fatto a misura umana.
Una volta evitato l’intervento degli altri giganti, Odisseo escogita una tecnica di fuga, la cui efficacia consiste nel capovolgere il normale ordine del pensiero e delle azioni. Per uscire dalla grotta viene utilizzato il mezzo di trasporto delle capre, che i fuggiaschi non cavalcano, come sarebbe sistema logico e quindi facile da essere svelato, bensì vengono da queste cavalcati, poiché si pongono sotto la loro pancia. Ecco come l’inganno ancora una volta si basa su qualcosa di “non comune”, su un capovolgimento della normalità del pensiero e dell’operare, su qualcosa di “innaturale” si potrebbe dire, sottolineando la collocazione dell’essere umano al di fuori dell’ordine puramente naturale delle cose.
Una volta in fuga, Odisseo, agendo con imprudente foga, lancia la sfida al gigante, rivelandogli il suo vero nome e quello della sua famiglia. Errore fatale però, visto che, essendo stato identificato, il dio offeso, ossia Poseidon, protettore di Polifemo, saprà come raggiungerlo e punirlo.
Sino a che l’uomo opera servendosi della sua tecnica raffinata, ovvero dell’inganno (sa mentire, come fa Odisseo), risulta in grado di dominare l’elemento naturale e si assicura la propria sopravvivenza, ma nel momento in cui rinuncia ad essa e si consegna all’elemento naturale qui espresso dallo sfogo emotivo di Odisseo, pone a rischio la propria esistenza. Egli “naturalmente” non è in grado di sopravvivere, sì che l’inganno (la tecnica cioè) è la sua seconda natura, la sua essenza.
In questo caso specifico si tratta di una tecnica verbale, che del resto è la caratteristica del menzognero Ulisse, che con le parole costruisce le sue trame per la sopravvivenza: parole così ben calcolate da riuscire a prevedere l’intera sequenza dei fatti che accadranno e a piegarli in suo favore. Non si tratta infatti di eventi immediati, ma di una serie di passaggi logici che, interpretati attraverso un’indagine “poliziesca”, conducono al pur lontano obbiettivo. Ciò significa che la sua tecnica non si riduce alla clava, il mezzo per colpire qui ed ora, ma piuttosto è un arco, con il quale può colpire lontano, dopo un attento calcolo della distanza e del tempo. La tecnica umana guarda lontano, è paziente, come è paziente chi la manipola, e per farlo la pensa e la traduce in parole.
La parola è l’arco del quale si serve Odisseo, o meglio di una serie ininterrotta di parole attraverso le quali ordisce il complesso di inganni che gli servono per sostenere ed affermare la propria persona. Con le parole costruisce il mondo, ovvero crea un mondo ordinato a propria immagine, che è l’immagine umana. Esso è ingannevole nel modo in cui si allontana dall’immediatezza naturale, dall’istintività, che appartiene invece a coloro che, come i Ciclopi, abitano una natura primordiale, pre-agricola e pre-sociale, e dinanzi alle parole si perdono. Non hanno dimestichezza con le parole così come non hanno dimestichezza con alcuna tecnica, in quanto essi piuttosto che esercitare la pastorizia, vivono in forma simbiotica con le capre.
Di contro, pur se l’artificiosità della tecnica, o della menzogna, assicura la sopravvivenza all’uomo, essa contiene tuttavia una forma di hybris e scatena l’ira divina a partire proprio dal momento in cui l’ingannatore, l’uomo tecnico cioè, rinuncia a proprio inganno dicendo la verità con la rivelazione del proprio nome. Per un momento, preso da uno slancio emotivo, ossia dalla sua natura animale, Odisseo smette di mentire e con ciò si condanna. Abbandona, diremmo, il suo arco con cui colpisce da lontano ed affronta la realtà con le sue deboli mani nude, per cui si sottopone al rischio dell’annientamento.
Il che significa che l’uomo non può abbandonare la sua tecnica, anche se questa lo conduce verso il pericoloso stato di vanitoso potere e lungo il cammino dell’innaturale. È noto del resto come l’entusiasmo verso la tecnica sia stato accompagnato nel corso dei secoli da un profondo timore di cadere nell’innaturale, di “sfidare gli dei” e quindi da impulsi d’evasione dalla “civiltà” verso il primitivo naturale, nella convinzione che il mondo artificiale nella sua degenerazione potesse annientare l’umanità. In tale contesto, come nota Spengler, si può determinare una fuga dell’uomo (Spengler parlava specificamente dell’uomo occidentale) dalla propria identità: questo sarebbe per lui il vero rischio e non l’inefficienza tecnica, dal momento che la tecnica è un pensiero inesauribile in grado di dominare la natura sino a che sarà attivo. Sino a che l’uomo sarà così persuaso di se stesso da poter continuare a ingannare la natura, vale a dire a costruire il suo mondo di inganni, ossia di tecniche. Odisseo, particolarmente in questo episodio, rischia quando dice la verità abbandonandosi al suo naturale istinto di vendetta. Egli, che attraverso la menzogna aveva ben calcolato le conseguenze, rivelando il proprio nome, risulta assolutamente incapace di prevedere le conseguenze vicine e lontane. I massi che piovono contro la flotta e l’ira di Nettuno che l’ostacolerà ferocemente nel suo viaggio verso Itaca.
Il menzognero Odisseo, il padrone della tecnica, e con lui l’uomo in generale, non sopravviverebbero senza il sapiente uso della parola creativa, la sua naturale artificiosità grazie alla quale egli crea un mondo a lui adatto, sì che il vero rischio si presenta quando, per un emotivo abbandono, vi rinuncia e cede alla verità, alla immediatezza del naturale. Nel quale invece si orienta Polifemo, che nella sua confusione verbale ribadisce di non avere alcuna dimestichezza col mondo delle tecniche nel quale è destinato a soccombere. Il ciclope, nella sua maniacale solitudine non comunica con i suoi simili, perché anche il comunicare o soprattutto questo, costituisce la base della tecnica, dell’operare, mentre si esprime soltanto nella sua relazione con le capre, certamente non fatta di parole. Nel momento in cui egli esce da questo stato di mancanza di parole, ossia pre-tecnico, soccombe, in quanto gli è stato assegnato un territorio pre-culturale, all’opposto di Odisseo che, nel momento in cui scivola nel naturale, rischia la vita, mentre assicura la sopravvivenza di sé e della sua specie esclusivamente attraverso la menzogna della tecnica. L’uomo per sopravvivere deve mentire.
Luciano Arcella
[1] Oswald Spengler, Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, München, Beck, 1931.
[2] “Per comprendere l’essenza dell’elemento tecnico non si può risalire alla tecnica delle macchine […] In realtà la tecnica è originaria […] La tecnica è la tattica dell’intera vita. È la forma intima del comportamento nella lotta che s’identifica con la stessa vita”. (Spengler Der Mensch und die Technik, cit.: 6)
[3] “Essa non dipende dalla fabbricazione di oggetti, ma da come si maneggiano; non dipende dall’arma, ma dalla lotta […] Ci sono innumerevoli tecniche senza nessuno strumento […] C’è la tecnica del dipingere, del cavalcare, del pilotare un aereo. Non si tratta di oggetti bensì sempre di un’attività che ha un fine” (Spengler, Der Mensch…cit.: 7)
[4] L’importanza di produrre un vino alimentare e tonico fu molto sentita dai Romani, che ponevano la bevanda sotto la protezione di Giove, garante dell’ordine civico e della moderazione. A parte le celebrazioni della raccolta dell’uva e del la vendita del prodotto, rispettivamente, 19 agosto (Vinalia rustica) e 23 aprile (Vinalia priora), un momento fondamentale per la sua fabbricazione si celebrava nel giorno dei Meditrinalia (11 ottobre), allorché il vino nuovo, più leggero, mescolato a quello invecchiato, assumesse la giusta gradazione, grazie alla quale non sarebbe diventato aceto né avrebbe alterato la mente del buon cittadino romano. Per un’analisi del calendario romano con le sue celebrazioni, si veda L. Arcella, Fasti. Il lavoro e la festa. Note al calendario romano arcaico, Roma, Acta, 1991.
[5] Esiste il termine polifemico, che prende però origine non dal nome del ciclope ma dalla sua figura di gigante.
[6] Il termine italiano, derivante dal latino si esprime nella medesima forma di negazione della persona: “nessuno” = “ne ipsum, ne unum”.
[7] “Non si tratta di un umano”, è quel che viene percepito dai ciclopi impauriti, ma di qualcosa di straordinario, che va al di fuori del nostro potere. Mi permetto di notare l’espressione spagnola “de uno”, interpretabile come “popolare”, “attinente alla gente”. In Colombia, accogliendo tale accezione, esiste una catena di supermercati denominata De Uno, a sottolineare l’economicità dei suoi prodotti.
[8] Arnold Gehlen, Der Mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt, Bonn, Athenäum Verlag, 1950.