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Nel mondo odierno, i problemi più profondi che la mente umana possa concepire – di quelli inconcepibili son piene le fosse, ma non ce ne accorgiamo neppure – non sono più all’ordine del giorno. Sembra che lo siano perché molti parlano dell’origine dell’universo, di cosa c’era prima, se sia nato per un atto spontaneo o divino, se esistesse da sempre (?) e così via; ma a livello serio, e non di chiacchiera, è come se le questioni di fondo fossero diventate tabù. Giudicate incommensurabili, pongono problemi di cui si stenta a valutare la portata, pur non essendo al di là di ogni possibile congettura; e questo vale per i numerosi corollari che l’esistenza dell’universo comporta. La questione del tempo, ad esempio, e in misura minore dello spazio; il divenire del cosmo, la pluralità dei mondi. Chi dice che il nostro universo sia l’unico? E se ne esistessero altri, cosa li separerebbe da noi? Forse proprio un diaframma temporale?
Il sapere moderno esclude che simili questioni abbiano rilevanza dal punto di vista scientifico, visto che il metodo può occuparsi soltanto di ciò che è verificabile; e invece di trarne sprone, il pensatore sistematico cede alla costernazione. Così il filosofo si è gradualmente assuefatto allo specialismo e al riduzionismo di una cultura il cui protagonista non è più l’intellettuale ma l’uomo della strada, il layman. L’opinione di costui non è forgiata dal pensiero autonomo né da conoscenze di prima mano, ma dai mezzi di comunicazione: proprio per questo si è abituato a ragionare poco, a non interrogarsi e a tenersi lontano da un bagaglio che non sia quello puramente tecnico. Un soggetto del genere (ammesso che di soggetto si possa parlare e non di semplice oggetto), non è neppure l’ignorante saggio di una volta, che, come il pecoraio di Teodoro Giùttari,1 può arrivare all’intelligenza da solo, grazie alle doti di curiosità e finezza di mente che gli sono proprie per tradizione. Infatti, prerequisito per compiere un tale percorso è appunto l’ignorare, attitudine che l’uomo integrato disprezza e allontana da sé. Egli crede che non sapere sia una sorta di anti-status: il potere d’acquisto deve infatti comprare anche la cultura, o almeno l’acculturamento. Ammettere di essere ignoranti significherebbe porsi all’ultimo gradino della scala sociale, tra le fila di chi non ha un diploma, non entra nei musei, non visita le mostre, non guarda il telegiornale o i talk show che dibattono problemi socio-eticali.
Se sia giusto o no consentire l’eutanasia, se ci possa essere un tribunale (televisivo) più svelto ed efficiente di quelli italiani, se i misteri dell’archeologia s’intreccino con quelli del cosmo: tutti questi argomenti s’inseguono quotidianamente sulle reti TV e, in modo più democratico, sui siti internet. La sapienza spicciola, l’informazione dell’uomo perso nella massa è fatta di cose di questo genere. L’ignorante crasso, oltre che negato, non esiste più: bisogna andarlo a cercare nelle pagine della letteratura o dell’antropologia, e con lui è sparita l’ultima possibilità di intelligere più o meno spontaneamente, di porsi con freschezza le domande che ci seguono dalla giovinezza del mondo.
Quella del tempo, ad esempio: esiste come entità, secondo ciò che dice anche la fisica, o è una nostra “sensazione”? Ma se il tempo esiste ed è influenzato da vari fattori, tra cui la velocità, non sarà possibile risalirlo e discenderlo, cioè viaggiare a ritroso e in avanti lungo quella che sembra essere la sua direzione? Oggi, per la prima volta, alcuni fisici pensano che in teoria potrebbe essere possibile e questo apre il campo a nuove ipotesi. Ma lasciando da parte i fisici, che a loro volta sono lungi dall’aver risolto il problema, e venendo all’uomo della strada, quali speranze egli ha, confuso e imbottito solo di nozioni, di concepire e affrontare interrogativi di questa natura?
Potremmo concluderne semplicemente che non ne abbia e che ciò chiuda l’argomento: ma sarebbe come ammettere la fine del pensiero speculativo, schiacciato tra l’indifferenza del metodo scientifico che si occupa soltanto del verificabile e la non-ignoranza della classe che lavora, nutrita di un sapere preconcetto e di manuali a uso della produzione. Rimarrebbero i filosofi, ma il loro percorso professionale sembra ormai aver raggiunto limiti oltre i quali non è possibile andare, frenato com’è dal pudore che lo contagia dall’aula di scienze. Un quadro catastrofico! Eppure il layman, colui che non è filosofo, borsista o ricercatore, colui che abitualmente non mette note a piè di pagina, quello che non docet e non pensa nemmeno troppo sistematicamente – in una parola, l’uomo del formicaio – può tornare ad essere il candidato al concepimento e alla proposizione delle idee liminari, e quindi delle grandi questioni.
Ma in che modo, se il pensiero originale gli è precluso? Ebbene, esistono soluzioni fatte apposta per il pubblico borghese: ascolti chi ne sa più di lui, sempre e ovunque; oppure si rivolga ai romanzi!
Per quanto riguarda la prima soluzione, è appena il caso di ricordare che la questione tempo-destino è stata affrontata in modo articolato negli incontri di questo ciclo, che costituiscono un metodo buono quanto un altro per staccarsi momentaneamente dalla contingenza e avvicinarsi alle questioni astratte. Tuttavia, siccome i nostri tempi non sono dominati dalla consapevolezza ma dall’inconscio, riteniamo altrettanto utile la terapia romanzesca, il cui immane serbatoio di immagini caotiche, oniriche e spontanee, intuizioni casuali e suggestioni subliminali, potrebbero rappresentare il crogiuolo di un pensiero non meccanico né servile nei confronti dello status quo. Dalla narrativa (anche narrativa sensazionale, come vedremo) alla filosofia il passo non è breve, ma è uno dei pochi tentativi che possa fare lo spirito curioso dei nostri tempi, volendo sfuggire ai vincoli del prestabilito.
Da parte nostra, ci siamo assunti il compito di mostrare come il problema del destino abbia fatto un considerevole passo avanti grazie al romanzo di H.G. Wells La macchina del tempo,2 che a quanto ci risulti è anche il primo3 ad aver trattato la possibilità di un attraversamento del flusso cronologico con moto accelerato, in modo da arrivare nel futuro “anzitempo”.
A chi obbietterà che sarebbe meglio leggere, a questo punto, il Saggio sui dati immediati della coscienza di Henri Bergson,4 nel quale il filosofo francese osserva come il tempo della fisica non coincida con quello della coscienza, facciamo notare che il problema trova un’elegante soluzione proprio nel romanzo di Wells, che in un certo senso ne costituisce la risposta. Il protagonista, definito semplicemente come il Viaggiatore del Tempo, astrae la propria coscienza dal flusso temporale fisico per poterlo meglio attraversare; solo una volta arrivato nel mondo di ottocentomila anni nel futuro, e, in un secondo momento, trenta milioni d’anni più avanti, la sua natura tornerà a sintonizzarsi sul tempo ritrovato, portando dentro di sé l’esperienza di tre epoche diverse.
Il lettore deve accettare il fatto che il Viaggiatore abbia scoperto un principio – e costruito una macchina che lo sfrutta – grazie al quale è possibile spostarsi nel futuro. Della teoria in sé sappiamo quanto basta: il tempo è una sorta di quarta dimensione e come tale è suscettibile di attraversamento volontario. Come siamo in grado di percorrere una superficie o di scalare una parete per la sua altezza, così potremo affrontare le distanze cronologiche. Il passato, all’inizio, sembra precluso: andremmo incontro al paradosso di una possibile e involontaria modificazione di ciò che è stato, alterando irreparabilmente il presente. Solo alla fine, dopo aver viaggiato per due volte nel lontano e lontanissimo avvenire, il nostro crononauta tornerà nell’Inghilterra contemporanea, ma tre giorni prima di aver effettuato il primo viaggio. (Il tabù del viaggio a ritroso viene così infranto.)
Quale insegnamento si può trarre, sul piano speculativo, dal breve romanzo di Wells? Da un lato c’è l’insegnamento politico, perché nel mondo di ottocentomila anni nel futuro l’avventura dei delicati Eloi e dei bestiali abitanti del sottosuolo, i Morlock, richiama le stratificazioni sociali dell’Inghilterra tardo-vittoriana; dall’altro, e a noi qui interessa in modo pressoché esclusivo, vi è la problematica del tempo e del destino del mondo, sia pure aggiustata alla visione dell’uomo moderno col suo fardello di empirismi, anziché a quella del filosofo di professione. E’ evidente che se diventasse possibile viaggiare nel futuro, avremmo la dimostrazione che il destino è già scritto, che ne esiste una sola versione. Wells non si dilunga sulla teoria di alcuni autori filosofici (ripresa dalla science fiction successiva) secondo i quali ogni volta che viene presa una decisione si crea una biforcazione, una sorta di bivio nel tempo come lo definisce l’americano Murray Leinster.5 Tale complessa visione presuppone che non esista un solo futuro, ma una miriade di futuri “potenzialmente reali”, tanti quante sono le possibilità di scelta che ci si presentano. L’agire nell’uno o nell’altro modo farebbe sì che intere linee di possibilità crollassero, lasciando il posto soltanto alle più suscettibili di verificarsi. Come abbiamo detto, Wells non scende in dettagli ma la sua visione non esclude tale possibilità. In effetti, visitando i mondi del futuro il Viaggiatore è intervenuto e li ha modificati più volte: la sua stessa presenza nei vari tempi costituisce un’alterazione di ciò che era possibile prima del viaggio. Quale che sia la teoria preferita – il poco credibile futuro monolitico o il più convincente ventaglio di possibilità – è chiaro, tuttavia, che un destino ultimo sovrasta tutte le cose: lo spegnimento del sole con relativa fine della vita terrestre. Questo è ciò cui assiste il Viaggiatore fra trenta milioni di anni, una stima piuttosto conservatrice in termini di storia del sistema solare giustificata dal fatto che ai tempi di Wells non si sapeva che la nostra stella bruciasse già da cinque miliardi di anni e la terra stessa si fosse formata più di quattro miliardi di anni addietro.
La morte del sole, in un futuro che i moderni astrofisici valutano intorno ai cinque miliardi di anni, è cosa certa. Il destino della specie umana è molto probabilmente quello di estinguersi prima, ma se anche trovassimo il modo di vivere quanto la stella che ci illumina, ben difficilmente potremmo andare oltre il collasso del sistema. L’entropia rappresenta dunque il destino, non suscettibile di modificazioni possibilistiche: da un punto di vista scientifico, Wells ha scritto giustamente la parola fine all’avventura dell’uomo. Ma dal punto di vista speculativo? Il romanzo di fantascienza, che naturalmente non è scienza rigorosa ma libera riflessione, un po’alla maniera della filosofia spontanea in un mondo più giovane, concede all’umana sorte almeno altre due possibilità. La prima è che, col puro esercizio di una volontà assurta a potenza metafisica, come in un racconto di Edgar Allan Poe, l’uomo eviti l’estinzione imparando a dominare i processi biologici o addirittura quelli cosmici. (Potrebbe dotarsi di corpi autosufficienti e impermeabili al gelo dello spazio o, in alternativa, di un sole artificiale quando quello naturale si fosse raffreddato.) La seconda possibilità di sopravvivenza è che, nei secoli, l’umanità si espanda in altri sistemi solari, su mondi vergini, grazie alla scoperta del modo di aggirare la barriera posta attualmente dalla velocità della luce. E anche nel caso che questo si rivelasse impossibile, come allo stato attuale delle cose dobbiamo credere, i nostri pronipoti potrebbero essere in grado di progettare veicoli generazionali6 in grado di compiere viaggi verso altri sistemi lunghi secoli o millenni, per quanto macchinoso ciò sembri adesso.
Ma l’importante non è quale sarà la soluzione scelta per sopravvivere (se potremo sopravvivere e non ci autodistruggeremo prima, o se non rimarremo vittima di una più che probabile catastrofe planetaria). Non è importante perché, in definitiva, per noi uomini di oggi queste sono di nuovo chiacchiere o poco più. L’importante, ai nostri fini, è ribadire come i romanzi, e per meglio dire alcuni romanzi, fra cui le scarne e umili opere della science fiction, abbiano saputo ricoprire un ruolo para-filosofico in seno a una cultura così poco filosofica per vocazione. La fantasia scientifica, creata da Poe a livello provocatorio e da H.G. Wells con passione speculativa, ha permesso agli uomini a malapena acculturati del presente di rivolgere il pensiero verso l’alto, in concomitanza con le grandi scoperte dell’astronomia prima e dell’astrofisica poi. Cioè quando, da un punto di vista non tecnico ma “meramente spirituale”, ormai sembravano perse tutte le fedi e tutte le speranze.
Giuseppe Lippi
[1] Nel romanzo L’interrogatorio (Milano 1967), lo scrittore siciliano racconta di un pastore che si comporta in base alla sua lucida e istintiva comprensione delle cose, inclusi i massimi problemi della realtà. Verrà “smentito” dagli inganni della vita sociale e finirà in prigione, per essere interrogato da uno psichiatra il quale dovrà stabilire se sia pazzo oppure no.
[2] H.G. Wells, La macchina del tempo (The Time Machine, 1895), tr. it. Milano 1996.
[3] Fu preceduto, in realtà, da un breve racconto dello stesso Wells che si intitolava The Chronic Argonauts , London 1888.
[4] Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza (Essai sur les données immédiates de la conscience, 1889), tr. it. Milano 2002.
[5] M. Leinster, Bivi nel tempo (Sidewise in Time, 1934). Tr. it. di Riccardo Valla in Il grande libro della fantascienza classica, Milano 1991.
[6] Ovvero, in grado di ospitare intere generazioni di esploratori per il tempo necessario ai lunghissimi viaggi. Cfr. Robert A. Heinlein, Orfani del cielo (Orphans of the Sky, 1963), tr.it. Palermo 1995.